IL LAVORO COME PROBLEMA FILOSOFICO   
da Aristotele ad Adam Smith
A cura di: Virgilio Cesarone
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Lezione 2

Come nota Manfred Riedel "Intenzione della filosofia di Hegel è, come in Aristotele, l'interpretazione dell'origine, significato e funzione del lavoro nella totalità della vita ed agire umani, anzi: tale intento si colloca all'interno dell'intero contesto di quello spirito inteso come 'totalità' storica che solo rende possibile e giustifica tale interpretazione" (op. cit.). Hegel infatti inserisce il problema del lavoro all'interno del proprio sistema filosofico, che, come sappiamo, è basato sul presupposto che la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero. 

Ciò significa che Hegel, lungi dal considerare il lavoro secondo una prospettiva slegata dalle condizioni economiche sociali del tempo, attinge a piene mani dalle teorie economiche inglesi, le quali coglievano la realtà in maniera più efficace rispetto a tante teorie filosofiche. Tuttavia è da ricordare che Hegel mutua da Fichte l'idea di un Io che si attua nell'attività, ossia che diviene nel momento che opera. Ma questo dinamismo, al contrario dell'Idealismo di Fichte, non è monologico, bensì dialogico, come rapporto tra diversi soggetti agenti. 

L'agire dell'uomo allora non rimane mai un atto separato, ma sempre collegato reciprocamente nelle sue diverse forme, e diventa inoltre oggettivo. Il lavoro e la cultura sono processi strettamente connessi che determinano l'intero contesto storico. Quindi da una parte Hegel tiene ferma la distinzione aristotelica tra agire e lavorare. Dall'altra però assorbe nella sua teoria le istanze di Locke e di Smith, cioè del lavoro come momento fondante la civiltà umana. 

Ma il contributo più importante di Hegel sul tema del lavoro riguarda il tema dell'oggettivizzazione dell'agire. Sappiamo che l'agire nella praxis non crea nessun oggetto, non si realizza quindi in un qualcosa di concluso, ma si realizza nell'attività stessa. Se invece l'agire, quello poietico, si oggettivizza, questo significa che non vi è una realizzazione per colui che agisce, ma per l'opera. Questo perché nello schema tradizionale aristotelico non c'è alcun rapporto tra l'essere attivo e l'opera. Questo schema non conosce né una relazione soggettiva dell'autore dell'opera con ciò che è prodotto, né un riferimento reale dell'opera compiuta nei confronti di colui che la fa. Tale schema di rapporti prende spunto da un esame dei rapporti di produzione, che si riferiscono però ad una società pre-industriale. 

Hegel invece, attento lettore delle opere dei primi economisti inglesi, e quindi consapevole delle mutazioni avvenute con l'industrializzazione dell'Europa, concepisce la produzione come Bildung, vale a dire come un processo di formazione in cui vi è sempre una retrorelazione dell'opera compiuta nei confronti del suo fabbricante. Secondo il filosofo tedesco non è possibile considerare priva di rapporti la relazione soggetto-oggetto nell'ambito della produzione, perché esiste tra di essi uno stretto rapporto di mediazione. Se però Hegel da una parte recupera le nozioni dell'economia politica, dall'altra egli rifiuta di considerare l'attività intellettuale improduttiva, anzi la sua filosofia è una esaltazione del lavoro del concetto, vale a dire dello spirito: "Tutto l'affare della storia universale è il lavoro di portarlo a coscienza" (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, La Nuova Italia, p.76). 

L'operazione di Hegel consiste dunque nell'inserire l'economia politica nella filosofia pratica, tenendo fermo però il nesso tra filosofia pratica e storia. Partito dalla volontà di ritornare all'eticità sostanziale degli antichi, per evitare l'aporia della filosofia trascendentale tra l'unità della ragione e la molteplicità della natura, egli riporta all'interno della sfera etica l'economia ed il diritto. In un secondo momento, riprenderà da Fichte, come già detto, l'idea di una formazione dello spirito, che avviene attraverso il confronto continuo con la natura per mezzo del lavoro. In questo modo la nuova poietica sarà il frutto dell'unione di idealismo trascendentale ed economia politica. 

In questa prospettiva "il lavoro - conflitto del soggetto con l'oggetto e sua oggettivizzazione nell'opera - diviene in Hegel un momento nella storia della mediazione della coscienza, e l'opera - come strumento e possesso - diviene quel medio tra gli opposti di forma e materia, soggetto ed oggetto, attivo e passivo etc, grazie al quale la coscienza - essa stessa medio nel processo del conflitto - si organizza e 'si forma'. Lavoro e formazione appartengono allo stesso genere" (M. Riedel, Hegel tra tradizione e rivoluzione, Laterza, p.21). 

Quindi Hegel ha sciolto le precedenti aporie e distrutto il primato preindustriale della prassi, tutto ciò soprattutto grazie all'introduzione di una nuova categoria, quella dell'alienazione. Il lavoro non è inteso come un dare forma all'oggetto (teoria questa che ha le sue radici nella concezione tomistico-medievale), quanto come alienazione in una duplice accezione. Innanzitutto come alienazione dell'appetito, vale a dire del desiderio, che è radicato in ogni individuo ed è quindi universale. In secondo luogo il lavoro è inteso come alienazione della parte interiore del soggetto, perché il lavoro è un darsi forma della coscienza - la Bildung di cui abbiamo già detto - in cui essa perde la propria parte soggettiva per acquisirne una oggettiva. In tal modo "il processo del lavoro aliena il soggetto nella cosa in quanto questo, nel suo lavorare, si adegua al complesso della natura e nel contempo è sottratto all'alienazione, perché rende oggetto se stesso nell'oggetto elaborato" (Ivi, p.22). 

Ancora Riedel sottolinea come la riflessione hegeliana sul lavoro si rivolge non al compimento e nemmeno allo svolgimento del lavorare, quanto all'inizio del processo. Il lavoro è concepito infatti come quel movimento che sorge dalla negazione dell'appetito, e che nel suo processo si volge tanto all'appetito, quanto alla negazione dell'oggetto che esso elabora. Quindi esso è negazione della negazione. 

Infine ciò che Hegel non dimentica di considerare è la dimensione sociale del lavoro. Le mutate condizioni socio-economiche mostrano l'impossibilità di mantenere la concezione aristotelica secondo la quale le attività economiche sono legate al singolo. Se anticamente infatti la singolarità del lavoro del servo era legata alla singolarità del lavoro del signore, Hegel comprende che invece la dimensione sociale del lavoro consiste nel dinamismo del riconoscere e dell'essere-riconosciuto. Per cui l'alienazione nella cosa, nel lavoro e nel godimento significa che tutto ciò entra nel processo di mediazione sociale e che qui compare il momento dell'essere riconosciuto. Attraverso il lavoro e lo scambio agisce la mediazione che forma la società. 

Pur riconoscendo ad Hegel di aver preso spunto dall'economia politica e quindi di aver considerato il lavoro come essenza dell'uomo, Marx critica fin dalla gioventù la teoria hegeliana del lavoro, perché avrebbe tolto a questo gli aspetti fondamentali antropologici e storico-sociali, soffermandosi soprattutto su quelli astratti e spirituali. Quindi il punto di partenza per comprendere l'essenza del lavoro deve attenersi per Marx all'oggettualità del lavoro ed alla corporeità del lavoratore. In questo modo Marx intende evitare di piegare il lavoro ad interpretazioni determinate dal trascendentalismo, per sottolineare invece come il lavoro, essenza dell'uomo, sia innanzitutto la modalità di opposizione dell'uomo alla forza materiale che rappresenta la natura. 

È proprio tale processo di contrapposizione dell'uomo alla natura che porta l'uomo ad oggettivizzarsi. Marx rifiuta il tentativo di mediazione hegeliano di agire e lavorare, per riprendere le istanze di Adam Smith con un capovolgimento dello schema gerarchico aristotelico. Il risultato è che la vita viene definita e concepita come lavoro. Così l'attività produttiva dell'uomo non è altro, nell'interpretazione marxiana, che la vita che produce vita. In questo modo Marx vede in un approccio antropologico, e non più filosofico come nell'Idealismo hegeliano, la chiave giusta per acquisire un'adeguata comprensione del fenomeno del lavoro. 

Tuttavia c'è da chiedersi se la presunta antropologia marxiana non sia un metodo di approccio troppo unilaterale, visto che egli, nell'interpretare il lavoro come atto di autoproduzione dell'uomo naturale, tematizza quasi esclusivamente i rapporti di produzione e le forze produttive. In tal modo se da un lato Marx aveva cercato di venire fuori dall'ingabbiamento del lavoro in un sistema dello spirito, con le sue premesse interpretative non può evitare una indifferenziazione dell'attività lavorativa. 

Sicuramente al materialismo storico marxiano è da ascrivere il merito di avere superato il dualismo cartesiano che immobilizzava l'uomo nella antitesi tra coscienza e mondo esterno, e di avere invece mostrato come la condizione umana sia determinata nella sua essenza dal lavoro e dall'agire. Secondo Marx gli uomini si distinguono dagli animali non per il pensiero, ma per la capacità di produrre da sé i loro mezzi di sussistenza. 

Anche da questo nuovo sguardo marxiano rivolto al dinamismo dell'agire e del produrre, connesso con un'attenzione ai temi più antropologici che metafisici, nasce la problematizzazione del lavoro da parte della cosiddetta Nuova Antropologia, di cui gli esponenti maggiori sono Arnold Gehlen, Helmuth Plessner e Max Scheler. Rimandiamo la trattazione di Scheler e vediamo come Gehlen tratta il problema del lavoro. 

Innanzitutto è da precisare che in realtà ciò che Gehlen cerca di mettere a fuoco nella sua antropologia non è tanto il lavoro, quanto l'azione dell'uomo. Il concetto di azione però viene formulato in una maniera così estesa che da sovrapporsi a quello di lavoro. L'azione è il fulcro intorno a cui ruota l'esame dell'uomo, poiché essa è il modo in cui egli modifica la natura per i propri scopi. Il perché di questa operazione è presto detto: si voleva evitare di rimanere di nuovo impigliati nelle questioni ormai aporetiche come il rapporto tra anima e corpo, o della relazione tra spirito e natura. Il risultato però è una sorta di indifferenziazione che non consente di distinguere i modi di azione dell'uomo. 

Sulla base di un forte interesse per le teorie bio-morfologiche del tempo Gehlen pensa l'uomo come un "essere carente", vale a dire non dotato, a differenza degli animali, di funzioni ed organi specializzati, che gli consentirebbero di adattarsi all'ambiente con facilità. La sua possibilità di sopravvivenza è legata al fatto che egli è in grado di creare un mondo-ambiente artificiale. Quindi è proprio la creazione di una "sfera culturale" che consente all'uomo di vivere e prosperare. Il comportamento umano inoltre non è legato in modo assoluto alle pulsione che gli provengono dagli stimoli. Egli è capace di mediare, di rispondere consapevolmente e quindi di progettare . ogni suo atto comportamentale è dunque un'azione, l'uomo agisce, non reagisce semplicemente (si veda A. Gehlen, L'uomo, Feltrinelli, p.59 e segg.). 

Gehlen identifica un meccanismo, di cui l'uomo dispone nell'adattarsi all'ambiente, esso è l'esonero. Il termine indica la capacità di schematizzare da parte dell'uomo comportamenti da adottare ogniqualvolta si verificano situazione simili, così da evitare di prendere di nuovo una decisione, per operare in maniera automatica. Tale meccanismo ci esonera dunque di fronte a situazioni che si presentano di routine. Naturalmente il processo di esonero investe attività di diversi ambiti: vi è l'esonero nel campo percettivo, motorio, comunicativo. Questo processo permette di risparmiare energie, che consente di prendere distanza rispetto al flusso continuo di impressioni che giungono dall'esterno.


Theorèin - Maggio 2005